La città e l’identità: “Napoli Ferrovia” di Ermanno Rea

Ermanno Rea

Ermanno Rea

Cosa fa di una città una città? Quando la somma dei comportamenti individuali – casuali discordanti conflittuali – diventa città? È un gioco di tensioni, fratture, balzi in avanti, scollature a cucire addosso ad una città la sua identità? O qualcosa di più materico: l’intrico delle sue strade, la mappa dei suoi monumenti, il suo tessuto urbanistico, l’umidità delle sue mura, le offese del tempo? Oppure la sua voce, il suo dialetto, il respiro concitato delle parole? E ancora: cosa definisce la vocazione di una città, la sua storia o la sua classe dirigente? Una città può incarnarsi in un progetto e quanto la mancanza di progetto può inquinare una città? Quando le compromissioni, le storture, i vizi diventano abito, diventano “passività”, “recita”, “inganno”, fino a farsi sistema, pelle sulla pelle? E infine: cosa definisce l’identità di una città del sud? La sua distanza, il suo ritardo, la sua irriducibilità rispetto ad una del nord? Come tutti i grandi libri, “Napoli ferrovia” di Ermanno Rea semina domande. E inquietudini. L’io narrante – lo stesso Rea – e l’ex naziskin Caracas si muovono tra le pieghe della città: ansioso di mettere alla prova la sua “vocazione” alla fuga, di resistere alla seduzione del ritorno il primo, che ha abbandonato Napoli nel 1957. Di restituire all’interlocutore il proprio vissuto, di scorgere negli avvenimenti della sua vita una trama, il secondo. Avvolto nelle sue reticenze, lo scrittore. A caccia “di verità assolute“, l’ex naziskin.

Rea ha accesso a un mondo, grazie alla presenza di Caracas. Caracas può incontrare un passato che non ha mai conosciuto grazie a Rea. I due camminano. Parlano. Raccontano. Si raccontano. Bevono thè. Non senza attriti. Caracas ha un dono: l’ascolto, la devozione nell’ascoltare. Scrive Rea:

“l’attenzione alle parole altrui, se non è una virtù cardinale, le assomiglia parecchio. Ma la devozione è molto di più, la partecipazione appassionata, l’immedesimazione sono qualità, anzi predisposizioni di cui soltanto pochi sono capaci e che non hanno mai mancato di suscitare in me, le rare volte che ne sono stato gratificato, ammirato stupore.”

I due si concentrano su quel micro-macro cosmo che è la Ferrovia, vera porta di accesso alla città da quando Napoli è stata “amputata” del suo mare. La percorrono, instancabilmente. Se ne allontanano e vi ritornano. La scoprono nel suo volto indaffarato, quello ordinario, fitto di partenze e transiti. E quello nudo, domenicale, quando i napoletani si ritirano da quello spicchio di città e a presidiare la piazza rimangono solo i “nuovi” napoletani, quelli adottivi, quelli che in qualche modo restituiscono a Napoli la sua vocazione: “Questa – scrive Rea – è una città-spugna, capace di apporre il proprio sigillo su ogni importazione, di ridurre alla propria misura chiunque la scelga per casa; questa è una città che inghiotte, metabolizza fingendo di farsi essa stessa straniera via via che integra lo straniero, lo divora. Perciò la mia piazza di oggi non è troppo dissimile da quella di ieri, perfino le voci si rassomigliano, e può accadere anche che il nigeriano gridi al nigeriano – “ma tu che cazzo vvuò?” – con una inflessione di parlata, una voce, come provenisse diretta dalle viscere della città”.Romanzo, cronaca, inchiesta, diario, toponomastica, immaginario: “Napoli ferrovia” è tutto questo, gioco di specchi tra il presente e il passato, tra la Napoli che si offre oggi, sfatta e ancora bellissima, abusata e sfrontata, e quella che emerge dal passato, la Napoli ancora sospesa in una rete di aspettative, prima che si consumasse il tradimento perpetuato ai suoi danni. Perché Napoli – è la tesi ricorrente nei libri dello scrittore napoletano – ha subito un’amputazione, un “sequestro”, nelle parole di Rea. È la Napoli che già erompeva nelle pagine di Mistero Napoletano (1995), altro romanzo-cronaca-diario tutto incentrato su quel sortilegio che ha attanagliato la città nel dopoguerra. Come è potuto accadere che, a un certo punto della sua storia, le menti migliori della città abbiano scelto di uccidersi? Quale disperazione “comune” ha spinto lo scrittore Luigi Incoronato, il matematico Renato Caccioppoli, la giornalista Francesca a uccidersi? Quale assottigliamento della speranza, quale restringersi della capacità-possibilità di incidere sulla realtà della città? Quale impotenza? Cosa ha spinto quelle menti a scegliere la (o lasciarsi scegliere dalla) defezione, la resa? Qui la scrittura di Rea si fa requisitoria, arringa. Non solo Napoli fu spogliata del suo porto e della sua vocazione industriale e mercantile per ospitare il Quartiere generale della Nato, trasformandosi “nel più grande porto militare d’Europa offrendosi come il maggior contributo italiano al sistema difensivo atlantico. Rinunciando così al suo stesso sviluppo. Anzi, a ogni futuro possibile. In compenso, tutto il Mediterraneo ai suoi piedi: ma non come mare di pace, come mare di guerra”. Ma al ripiegamento della città su se stessa, contribuì in maniera determinante – è la tesi dello scrittore – anche il partito comunista che raccolse quelle inquietudini ma allo stesso tempo mise in piedi una spietata macchina inquisitoriale che finì per spegnere, prosciugare aneliti e stendere – sugli spiriti più inquieti della città – una cappa di mortifero silenzio. Una “dismissione”, per citare un altro libro di Rea (La dismissione, 2002), che inghiottì non solo Bagnoli e la sua acciaieria (l’Ilva di Bagnoli) ma l’intero destino della città. Una “dismissione” che è metafora neanche troppo velata dello “smontaggio” che fu inflitto a Napoli, tanto più doloroso perché ebbe come apogeo proprio quell’acciaieria che era assurta a simbolo di un’altra città. “Noi amavamo Bagnoli – dice uno dei personaggi di La dismissione -. Perché rappresentava mille cose insieme ma, prima di tutto, perché incarnava ai nostri occhi una salutare contro-copertina della città. Una contro-copertina che trasformava in alacrità l’indolenza, in precisione l’approssimazione, in razionalità l’irragionevolezza, in ordine il caos, in rigore la rilassatezza. L’amavamo perché introduceva in una città inquinata – la Napoli della guerra fredda, dell’abusivismo selvaggio, del contrabbando – valori inusuali: la solidarietà; l’orgoglio di chi si guadagna la vita esponendo ogni giorno il proprio torace alle temperature dell’altoforno; l’etica del lavoro; il senso della legalità…”.C’è una virtù (o una maledizione?), un’attitudine, che accomuna, che ritorna, come una sorta di sigillo, nei personaggi (ma è meglio dire nelle persone) che Rea interroga, ascolta, trascrive nei suoi libri. Quella virtù ha un nome: ostinazione. Una sorta di irriducibile resistenza, di fiera passività, di attaccamento e fedeltà morali, pagate a  caro prezzo. Qualcosa che ha due facce, se è vero che essa – quell’ostinazione, quella dirittura – può farsi estrema, avere estreme conseguenze. Farsi scelta radicale: quella della sparizione, come nel caso dell’economista Federico Caffè (e raccontata da Rea in “L’ultima lezione. La solitudine di Federico Caffè scomparso e mai più ritrovato”). L’ostinazione può essre insomma una virtù tragica: “Con la volontà si tende in generale a costruire; essa è progetto, e in quanto tale conosce e pratica le arti della duttilità. La volontà è una virtù rampante. L’ostinazione invece è difesa a oltranza di qualcosa. Generalmente di principi: non conosce perciò compromessi. Per l’ostinato la vita è una trincea da non abbandonare a nessun costo; è rifiuto. Anzi, è il rifiuto elevato a paradigma esistenziale, a ricerca di una possibile bellezza del mondo al di là delle degradate forme in cui tende a cristallizzarlo il potere. Qualunque forma di potere”.

“Ormai tutta la vecchia ossatura industriale napoletana era in via di smantellamento: avevano soltanto l’imbarazzo della scelta. Nella sola zona flegrea l’elenco delle fabbriche-non-più-fabbriche faceva spavento: Cementir, Montedison, Olivetti, Pirelli-cavi, Cantieri Navali di Baia, Novopan, Ferriere di Agnano. Senza contare le decine di ditte private che svolgevano lavori di manutenzione speciale degli impianti all’interno dell’Ilva. Poi c’erano le fabbriche della zona orientale: la Corradini, le Cotoniere meridionali, la Manifattura tabacchi, il polo petrolchimico…” (La dismissione, p.158).


Cos’è l’amicizia se non una splendida avventura?

Su L’avventura dell’amicizia, Magnano, Edizioni Qiqajon, 2007

Sto andando a Roma, in treno, per lavoro. Domani sarà il decennale di Bombacarta e, se riuscirò, parteciperò all’Officina sull’acqua, ritagliandomi un mezzo sabato solo per me. Pur essendo in BombaCarta da pochissimo tempo, pur avendo visto poche volte le persone che fanno parte di questa “cosa meravigliosa” (ma è riduttivo), sento un irrefrenabile desiderio di “stare” con loro e condividere con semplicità quel poco che sono e che ho da offrire. Non ho fatto nulla affinchè succedesse tutto questo, ma sono stata accolta ugualmente in un modo che mi ha sorpreso e che è il modo con il quale io stessa ho sempre cercato di accogliere chiunque entrasse nella mia casa . Gli amici sono solo quelli di vecchia data? Quelli coetanei? Quelli dello stesso sesso? Dopo queste riflessioni finisco finalmente di leggere le poche pagine che mi rimangono di un libro che ha illuminato queste ultime settimane, un libro che ho gustato interiormente poco alla volta constatando con meraviglia che si può vivere realmente in maniera totale quella che gli autori definiscono un’avventura. Infatti cosa è l’amicizia se non una splendida avventura[Continua »]


Julien Gracq

La recente scomparsa di Julien Gracq, scrittore francese che ha attraversato tutto il Novecento (essendo nato nel 1910) e che l’ha punteggiato con i suoi 19 libri, pubblicati senza grandi tirature per lettori colti, induce a riconsiderare l’opera di questo narratore, poeta, saggista e memorialista, discreto e riservato, ritiratosi da molti anni a vivere nel suo villaggio natale, estraneo per scelta al mondo letterario della capitale, anche se le sue opere compaiono nel catalogo di Gallimard. Tentato in gioventù dall’impegno politico in area comunista, passato poi attraverso il coinvolgimento della guerra e l’esperienza della prigionia, si è in seguito dedicato in maniera esclusiva (oltre al lavoro di insegnante in un liceo di Parigi) alla produzione letteraria, nella convinzione che il linguaggio è lo strumento che permette di comunicare con il mondo e di conoscerlo misticamente. La sua stagione narrativa prende le mosse dal surrealismo, dominante al momento del suo esordio con Al castello d’Argol (1938), per accentuare nel dopoguerra la sua grande originalità, poetica, simbolica e metafisica in una narrazione che sempre più si arricchisce di intensi riferimenti culturali estranei alle ideologie dominanti.
Dal secondo romanzo, Un bel tenebroso (1945) a La riva delle Sirti (1950) a Una finestra nel bosco (1958), fino ai testi raccolti ne La penisola (1970), la narrativa di Gracq racconta sempre, in una prosa affascinante ed elaborata, impreziosita da grande ricchezza metaforica, un’unica storia, in cui si combinano la solitudine, la morte e l’attesa, senza consolazioni di tipo religioso, ma con l’ansia di chi vive sulla soglia di una zona inesplorata, di un territorio segreto, con la consapevolezza del peso schiacciante del destino. Lo stesso Gracq ammise serenamente di non avere uno spirito religioso, anche se rimase sempre, per incomprensibile incongruenza, estremamente sensibile a tutte le forme che il sacro può assumere. Questa fedeltà a simboli e riti sacri, sovente presenti nei suoi testi, anche se stravolti, potrebbe interpretarsi come insoddisfazione del reale e del contingente, che lo ha portato a privilegiare segni pur sempre di meraviglia e di speranza. Questi atteggiamenti possono essere individuati anche come quelli con cui lo scrittore ha continuato a guardare il mondo da un angolo di visuale che si inabissa nel profondo del suo io: egli è sempre vissuto in una fine bolla di trasparenza, che nascondendo la dimora ideale del suo io, gli ha permesso di guardare al di là il mondo, grazie a quell’universo di parole, che diventa la rivelazione della meraviglia non sostenibile che è rappresentata ai suoi occhi dal mondo che ricrea, narrandolo. Un mondo che Gracq costruisce e domina soprattutto nel suo romanzo più noto La riva delle Sirti, in cui traspone in uno scenario inventato l’azione che conduce allo scatenarsi di una guerra, quale lo scrittore stesso aveva potuto osservare tra il 1936 e il ’39: qui la finzione nella sua autonomia sprigiona uno spirito della Storia, che, pur tenendo l’attualità a distanza, ne fornisce una chiave interpretativa. È un romanzo dell’intimo, in cui campeggia un personaggio solo, in un luogo deserto e quasi abbandonato, un posto sconosciuto e misterioso, che affascina e attrae, assumendo per questo caratteri di sacralità. Tutta la narrazione è incentrata sull’attesa di un evento, raccontato a posteriori, il che dà all’autore l’occasione di individuare tutte le possibilità del destino. Questo romanzo è in realtà una “non-storia”, dato che la vicenda si mette in moto proprio quando la narrazione termina. È il racconto di una situazione di immobilità di fronte all’incognita del destino. Di qui nascono brucianti interrogativi: credere di fronte al nulla? fare qualcosa o non fare niente? non intervenire, non tentare di dare un senso più autentico e profondo al proprio esistere? Al termine ci rimane l’idea che l’autore voglia farci intendere che l’attesa senza fine è, come ogni esperienza, una forma d’esistenza possibile e degna di essere presa in considerazione, anche come filo conduttore di un romanzo. Per questo le vicende raccontate ne La riva delle Sirti hanno un carattere di universalità, perché quello che l’autore vuole sottolineare è che nell’avvenimento, ad essere meravigliosa è l’attesa: Au- delà de ce qui arrive ou n’arrive pas, l’attente est magnifique. E proprio questo, cioè il sentimento della meraviglia, come ha evidenziato J.-M. Maulpoix, è la caratteristica che contraddistingue questo narratore e poeta, che in Italia si conosce troppo poco, il quale ha saputo farsi interprete, grazie ad una ricca creatività, de la merveille unique que c’est d’avoir vécu dans ce monde et dans nul autre.


La playlist del 2° Laboratorio di Bombamusica

Il 17 gennaio si è tenuto il 2° laboratorio di Bombamusica. È stato un bell’incontro, iniziato con patatine sancarlo e bibite, caratterizzato da commenti via via più approfonditi sull’aspetto prettamente musicale, e concluso con la voglia di rimanere insieme ad ascoltare altri brani. Eravamo in sei, tra i quali Dante Monda con la sua nuova chitarra che ha chiuso la serata con un bel pezzo dal vivo. Qui trovate la playlist del laboratorio.

Il prossimo incontro sarà giovedì 7 febbraio sempre nel complesso parrocchiale di San Saba (via di San Saba, 19) dalle 19.00 alle 20.30. Questa è la lista dei brani presentati:

1. Beppe Frattaroli: autore: Bob Mc Ferrin (titolo del brano e cd sconosciuti)
2. Michela Carpi: Stone on the water (Badly Drawn Boy, The hour of Bewilderbeast, 2000)
3. Andrea Monda: Into my arms (Nick Cave, The Boatman’s calls, 1997)
4. Gian Luca Figus: You are my face (Wilco, Sky blue sky, 2007)
5. Cecilia Pandolfi: Paths that cross (Patti Smith, Dream your life, 1996)
6. Dante Monda: The sounds of silence (Simon & Garfunkel, Sounds of silence, 1966)


Gli eroi di "carta" di Alessandro di Nocera

Alessandro Di Nocera è autore di un bel libro (e originalissimo nella grafica) sul mondo del fumetto americano “Supereroi e superpoteri. Miti fantastici e immaginario americano dalla guerra fredda al nuovo disordine mondiale” (Castelvecchi). Alessandro ha risposto ad alcune domane sull’universo del fumetto Usa.

Supereroi e superpoteri sarebbero impensabili senza le metropoli, e l’universo industriale che le ha rese possibili. E’ per affrontare questo nuovo spazio collettivo che il corpo dell’eroe si attrezza di poteri “super”. Eppure i supereroi hanno in comune un codice zoomorfo: è l’animale che rivive grazie all’eroe. Basta pensare all’uomo ragno: il morso richiama riti antichissimi. Come si spiega questa duplicità?

Anche se il concetto di supereroe contemporaneo deriva da quello del superuomo ottocentesco – da quello letterario dumasiano fino all’ubermensch delle teorizzazioni filosofiche di Nietzsche -, le sue radici restano archetipe. L’idea di forza nell’immaginario dell’umanità è – fin dalla preistoria – connessa con i fenomeni naturali, col dinamismo quasi magico degli animali (basta pensare alla loro formidabile rappresentazione nelle pitture rupestri). La trasformazione/trasfigurazione [Continua »]


I video di BombaCinema

road

Ebbene sì, dopo l’esperienza di BombaMusica abbiamo scoperto che le playlist ci piacciono! Per chi non può partecipare ai laboratori di BombaCinema ecco infatti la nuova playlist dove potete scoprire sequenze e trailer dei film visti durante il primo incontro del 2008, sul tema: La strada.

Prossimo appuntamento: giovedì 24 gennaio 2008, ore 19.00 a San Saba, in via di San Saba 19, Roma. Tema dell’incontro: L’acqua.


Navigazione vs pellegrinaggio?

Lagerkvist contempla il «sacro mare» di Svezia

Lagerkvist contempla il «sacro mare» di Svezia

Ecco un testo che condensa l’ambivalenza insita nell’ambiente acquatico per eccellenza, il mare, considerato ora in opposizione alla stabilità/immobilità della terra, ora come elemento assoluto e infinito. Si tratta del romanzo Pellegrino sul mare dello svedese Pär Lagerkvist, Nobel per la Letteratura nel 1951. I due protagonisti di questo dialogo sono Giovanni, un pirata che si scoprirà essere ex-sacerdote, e Tobias, un ex-brigante partito in pellegrinaggio per la Terra Santa:

– Sei mai stato prima in mare?
– No, mai.
– Dunque non sai nulla, del mare?
– No.
– Allora hai molte cose da imparare, il mare insegna molto. [Continua »]