Casa

Mi trovavo in Romania per un convegno internazionale e, durante un giorno di riposo, due professori della locale Università stavano guidando tre di noi in un giro turistico per Sibiu e Sighisoara. Eravamo: una collega australiana, un collega spagnolo e un italiano, il sottoscritto. Una bella gita, davvero. Passeggiando con la collega australiana parlavo, e non mi ricordo bene perchè, delle radici, così siamo passati a parlare delle nostre radici.

Lei mi diceva di essere australiana, ma che le sue radici erano turche e greche, ben rivelate queste ultime dal suo cognome. Vedevo che il suo discorso teneva in grande considerazione queste radici, come qualcosa di veramente importante per lei. Parlando di Australia mi diceva che il suo Paese è un insieme [Continua »]


“Rileggere Dante con gli occhi del suo tempo” di Andrea Zanzotto

Per capire la «Commedia» bisogna entrare in quel mondo fatto di realtà e visioni; Il fiorentino continuamente reinventato come lingua vera e propria, Il torrente vivo delle terzine lo porta a nuove scoperte di intonazioni. I versi dell’ Alighieri nell’ analisi di un grande poeta. Che spiega come cogliere lo spirito di un’ opera giunta a noi attraverso centinaia di trascrizioni.

“1. Ma di quale testo di Dante parliamo? Come arrivare al vero testo attraverso centinaia di trascrizioni, se non c’è nemmeno un autografo del nostro massimo poeta? Una specie di scommessa diventa necessaria. Ma occorrono anche fonde rettifiche alla nostra percezione del suo mondo, dell’epoca che egli rappresenta. Quando ci si accosta a Dante, infatti, diventa necessario un coinvolgimento nel clima di visionarietà in cui allora si era immersi. Il passaggio dall’immagine «reale», al sogno, alla «visione» – nel senso di comunicazione con un altrove – non presentava particolari soluzioni di continuità. Esiste anche oggi, a macchie, un simile clima; penso per esempio al caso di quel distretto del nostro Sud in cui per molti anni «tutti» vedevano «qualcosa» (l’antropologo Paolo Apolito ne ha dato ampia relazione). E ovviamente ci si dovrà soffermare sul fatto che il mondo degli Evangeli è tutto inserito entro il contesto di un dramma cosmico di lotte: una concezione, questa, che attraversa i secoli per arrivare fino a Milton, a Goethe, (per non dire a Bulgakov…). Tommaso d’Aquino, immagine stessa di un realismo razionalistico di base aristotelica, ha una famosa visione in cui Cristo loda quanto il filosofo ha saputo dire di lui («Bene dixisti de me, Thoma»).

Del resto, lo stesso Innocenzo III autorizzò oralmente l’Ordine di Francesco in seguito a un celebre sogno. E una vena mistica, sempre più potente, pervadeva l’animo dello stesso Dante. Ma l’incontrastata forza di tale clima visionario, eccettuate naturalmente numerose e ben note reazioni opposte, crea una condizione generale di apertura al sentimento che «i morti non sono morti», sono tra noi, sono vivi. Nessuno poteva essere pensato come annichilito del tutto, al contrario di quanto accade nel mondo attuale, in cui pure chi non è escluso «in quanto memoria» può da un momento all’altro cadere nell’oblio. Chiara Frugoni ha indagato con intrepidità particolare l’alta e caratterizzata realtà di San Francesco in questo quadro, in cui si svilupparono le sue esperienze al limite, in un insieme di contrastanti sfumature.

2. Quando si dice memoria, poi, si rientra in un campo importantissimo: nel passato, persino i sussidi segnici delle scritture, deprecati fin da quando venne sospettato e talora condannato il dono del dio Teuth, si vedevano come «macchine obliteratrici» della ginnastica mentale. Oggi, al contrario, sembriamo rassegnati alla mineralizzazione della memoria nei banchi informatici, potenzialmente vasti come lo scibile che è in aumento geometrico. Ma da quando i bardi erano famosi per l’obbligatorio apprendimento mnemonico di interi poemi (si parla di tremendi esami, anche in situazioni fisiche difficilissime, per i Druidi) – dalle lontananze di un’«oralità perpetua» soprattutto riguardante la poesia e, secondo alcuni, trasmessa su un arco di almeno sessantamila anni – si viveva entro atmosfere costituite su «bolle» più o meno stabili di memorie disomogenee. E qui Dante brilla sovranamente: in una società in cui pochi avevano accesso alla materialità degli scritti, infatti, egli era già entrato nell’animo popolare, e i frammenti più semplici del suo poema erano ovunque spontaneamente recitati: egli stesso era ammirato per la sua portentosa memoria. Di questo suo «atletismo mentale» egli ci dà testimonianza per bocca di Virgilio, che riferendosi all’ Eneide , dice a Dante «ben lo sai tu, che la sai tutta quanta» ( Inf. XX, 114).

Questa memoria, che tiene viva e presente un’enorme tastiera di significati e significanti, è quella stessa forza che, nell’atto creativo, mette a disposizione una quantità eccezionale di mezzi espressivi già in «allarme». Ciò ben risulta da una nota testimonianza di uno dei più antichi commentatori, l’«Ottimo», secondo la quale Dante, pur affermando che se il torrente vivo delle terzine, con il ritorno delle rime, lo porta a nuove scoperte di intonazioni e immagini, e quasi lo costringe di continuo ad inventare, egli, comunque, non si discosta dai concetti fondamentali che la sua mente vuol proporre. Questo incredibile intreccio di energie, tutte «prepotenti», riesce a prevalere, relegando in disparte il lavoro teorico di opere come il Convivio e il De Vulgari Eloquentia , o altri suggestivi gruppi di versi e apre la strada al poema sacro «al quale ha posto mano e cielo e terra» ( Par. XXV, 2).
In ciò si rende visibile l’affermazione sempre più netta della necessità del fiorentino parlato e continuamente reinventato come lingua vera e degna della poesia, e proprio per la poesia di Dante. Egli incontrava così anche la traccia della «pantera profumata» ( panthera redolens , nel De vulgari Eloquentia ), che non si rinveniva in nessuna delle lingue o dialetti da lui presi in esame, pur tutti sfiorandoli. Si sapeva che egli acconsentiva al destino toscano della poesia che era già in atto ai suoi tempi, ma doveva difendersi, persino nei tardi anni ravennati, dalle accuse amichevoli di Giovanni del Virgilio relative al suo abbandono della lingua degli antichi padri (sempre viva nelle classi dotte). Dante non vuole e non può staccarsi dal volgare, già illustre eppure vicino al popolo, nella sua umile ma irrefrenabile fioritura, pensa alle donnette che lo parlano e lo «attestano». E capita qui di ricordare Lutero che, nella traduzione in tedesco della Bibbia, riconosceva di abbandonare una lingua sacralmente insuperabile, come l’ebraico, per favorire appunto le «mulierculae», il vissuto popolare-reale.

3. Madri, umiltà, bambini, tracce della «pantera» al momento adamitico delle lingue, fino all’inevitato, per Dante, contraddirsi tra certe sue affermazioni teoriche e la definitiva realtà del «risucchio» della Commedia che abiterà tutta nell’amore e nelle sue diversità. Il grande amore nasce per Dante «prima ch’io fuor di puerizia fosse» ( Purg. , XXX, 42): Beatrice è una bambina e tra lei e Dante, anche nel trascorrere degli anni prima della sua precocissima fine, prende forma la tormentata innocenza di un fatto sostanzialmente immaginario, (che a noi potrebbe ricordare il mito del «vert paradis des amours infantines» di Baudelaire). Il fantasma iniziale di Beatrice si trasforma lungo tutto l’itinerario letterario di Dante per dissolversi nell’ultimo sorriso in Par. XXXI, 91-93, generando un senso di sottile e misteriosa frustrazione («quella, sì lontana / come parea, sorrise e riguardommi; / poi si tornò a l’etterna fontana»). E lungo il poema l’attenzione a fatti, anche linguistici, di valore aurorale, continuerà ad apparire; basti pensare al «pappo e ’l dindi» delle prime sillabazioni ( Purg. , XI, 105), e al ricorrere, per ricordare l’impotenza umana a dire la realtà suprema, a numerose variazioni sul tema del «fante / che bagni ancor la lingua a la mammella» ( Par. , XXXIII, 107-108). E’ il caso del «fantolin che ’nver’ la mamma / tende le braccia, poi che ’l latte prese, / per l’animo che ’nfin di fuor s’infiamma» ( Par. , XXIII, 121-123); o, ancora, del conclamato atto di fiducia nell’infanzia ( Par. , XXVII, 127-136): «Fede e innocenza son reperte / solo ne’ parvoletti; poi ciascuna / pria fugge che le guance sian coperte. / Tale, balbuziendo ancor, digiuna, / che poi divora, con la lingua sciolta, / qualunque cibo per qualunque luna; / e tal, balbuziendo, ama e ascolta / la madre sua, che, con loquela intera, / disia poi di vederla sepolta». E traspare nel poeta un’ombra di non superata angoscia per il destino dei bambini incolpevoli ( Par. XXXII).

4. Ma per capire ciò che si verifica in quelli che si potrebbero chiamare display tipici della poesia, basterà dar rilievo ad alcuni frammenti danteschi – fermo restando che è sempre augurabile la lettura dell’intero poema, l’avvicinamento al suo «romanzo» integrale. Le increspature di emergenze altamente significative sono per altro tali e tante entro l’onda delle terzine, di loro gruppi, che degli esempi vanno evidenziati anche qui. Vi si rinviene infatti una specie di lingua totale e atemporale della poesia che si pone al «sommo» dell’espressione. Un massimo di figure retoriche signatae , già classificate, si fonde a una particolare innovazione «acrobatica» – a un «andar per sommi», cioè, nel realizzare la perfetta sincronia di musica mentale, intelligibilis (analogica?), e onda fonico-ritmica. È ciò che Dante stesso chiama «legame musaico», il tout se tient della poesia, piano autonomo voluto dalla Musa, e di tale coesione che «nulla cosa per legame musaico armonizzata si può de la sua loquela in altra trasmutare sanza rompere tutta sua dolcezza e armonia» ( Conv. , I, 7).
Si dia un’occhiata a Inferno , XVII, vv. 55-63. E’ l’incontro con gli usurai, anzi, con le borse che recano i loro stemmi di ricconi mai abbastanza avidi, cui si riduce il loro stesso volto: «dal collo a ciascun pendea una tasca / ch’avea certo colore e certo segno, / e quindi par che ’l loro occhio si pasca. / E com’io riguardando tra lor vegno, / in una borsa gialla vidi azzurro / che d’un leone avea faccia e contegno. / Poi, procedendo di mio sguardo il curro, / vidine un’altra come sangue rossa, / mostrando un’oca bianca più che burro». E la rassegna continua. La personificazione dell’azzurro, che diventa sostantivo e che agisce attraverso l’idea di leone, la si potrebbe ritrovare nei surrealisti, e ha un potere quasi ipnotico sullo sguardo di Dante, lo trascina come uno stridulo, pesante carro a vedere l’altra borsa il cui peso si moltiplica nel bianco lurido di un’oca su un fondo sanguinante. L’accostamento sangue e burro provoca quasi un senso di nausea, introduce in un mondo quasi di fisica perversione. Al polo opposto, nel XXXIII del Paradiso , vv. 124-126, ecco un improvviso lampo che mira a esprimere la totalità del divino e dell’essere come luce, in una serie di parallelismi perfetti e insieme irraggianti tutt’intorno alla perentorietà delle dentali sorde e sonore (/d/, /t/) e di certe vocali (/i/, /e/), mentre la sintassi crea una piena circolarità – e il poeta sembra quasi tremare in questa pronuncia dell’impossibile-possibile: «O luce etterna che sola in te sidi, / sola t’intendi, e da te intelletta / e intendente te ami e arridi!». Siamo di fronte a qualcosa di pienamente incentrato sulla teologia trinitaria ma che nello stesso tempo ne fuoresce, sfreccia, si sfa appunto in una specie di raggiera di tintinnii e dilatazioni foniche. Forse qualche cosa che a noi può ricordare la musica di Lajos Ligeti ( Lux Aeterna ) che si accompagna in un famoso e già lontano film all’enigmatica stele, o tavola di legge chiave del cosmo. Pare che Dante qui trascinato da una forza abissalmente autonoma della Musa arrivi attraverso la poesia sulla teologia a una «teologia della poesia» percepita come autonomia di un dire che si autotrascende, al di la di realtà e mito, in una perenne apertura sul possibile.”

(dal Corriere della Sera del 20 settembre 2004)


Viaggio attraverso l’Eneide IX

Eurialo e Niso fanno strage dei Rutili. P. Virgilio Marone, Eneide IX, 314-366. Lugduni 1529 (in Typographaria Officina Ioannis Crespini)

Inviata da Giunone, Iride appare a Turno,  lo informa dell’assenza di Enea e lo incita a rompere gli indugi e ad assalire il campo troiano. Riconosciuta la dea, l’eroe latino la saluta e si dichiara pronto al combattimento, dopo aver elevato preghiere agli dei. Guidato da Turno, l’esercito italico si fa avanti in armi; i Troiani, vedendolo avvicinarsi minaccioso, rientrano precipitosamente nelle mura e si dispongono a resistere. Mentre il grosso dell’esercito è ancora lontano, appare sotto le mura Turno con venti cavalieri scelti; dà il segno dell’attacco, ma invano cerca un varco per penetrare nel campo troiano. Allora conduce i suoi contro le navi troiane ancorate nel fiume e tenta di incendiarle. Ma un prodigioso intervento di Cibele salva le imbarcazioni dalla distruzione. Infatti, sotto la minaccia dell’incendio, le navi rompono gli ormeggi, s’inabissano e subito riemergono dall’acqua trasformate in naiadi. Questo prodigio avviene perché, quando Enea le costruiva alle falde del monte Ida, Cibele aveva chiesto a Giove che quelle navi, fatte con pini a lei sacri, fossero sempre salve, ma Giove, non potendo violare a tal punto le leggi del Fato, le aveva promesso che avrebbe trasformato in naiadi quelle che avessero toccato il suolo laurente (la terra cioè abitata dai Laurenti, a sud della foce del Tevere), e così avvenne. Tutti restano sbigottiti alla vista del prodigio; solo Turno non si smarrisce, anzi s’accende di tanto più fervido ardore che gli infonde nuovo coraggio, soprattutto perché vede i Troiani privati della flotta. Grida ai suoi compagni che il campo troiano sarà distrutto, come già era avvenuto per Troia. Proclama con vigore che i Latini non ricorreranno a trucchi e inganni, come avevano fatto i Greci: combatteranno a viso aperto e vinceranno alla luce del sole. Poi fa stringere il cerchio dell’assedio e predisporre l’attacco per l’indomani. [Continua »]


America, la macchina del voto: a colloquio con Alberto Simoni

La campagna elettorale Usa è non solo l’evento politico per eccellenza, ma anche una gigantesca macchina comunicativa. Abbiamo chiesto ad Alberto Simoni, giornalista di Avvenire, autore di G.W. Bush e i falchi della democrazia (Falzea) e Cambio di rotta. La dottrina Bush e la crisi della supremazia americana (Lindau) e curatore del blog blogwolfie.com, da poco rientrato dal Sud Carolina, di aiutarci a capire come è cambiata e come funziona questa macchina.

Dibattiti elettorali su YouTube, candidati che fanno a gara per conquistare spazi su myspace, il 24% degli americani che dice di apprendere notizie sulla campagna elettorale da Internet (contro il 13% del 2004). L’ingresso di Internet nella campagna elettorale Usa è destinata a scompaginare il linguaggio politico americano?

Non credo che la Rete rivoluzionerà il linguaggio politico americano a breve termine. Ma sicuramente Internet sta rapidamente conquistando importanza nelle scelte strategiche e di comunicazione dei candidati. Un esempio su tutti: [Continua »]


Terremoti di carta: nuove scosse di cultura

messina

100 anni dopo, un altro terremoto sconvolge Messina… [tp]

E’ stata registrata una nuova scossa questa sera ma niente paura. È tutto sotto controllo. I danni sono irreverersibili ma questo non sembra generare panico o dolore.

Questa sera, ad un anno di distanza dell’inizio della nostra meravigliosa avventura, ecco il sito di Terremoti di Carta! È tutto vostro! Potrete contribuire a renderlo vivace, lasciando i vostri racconti, le esperienze, le iniziative, le news che girano attorno alla vita dei nostri laboratori e ai percorsi del vostro narrare. [Continua »]


I Am Legend, prima puntata

Se ben ricordo l’incontro con Richard Matheson avvenne dentro un Dylan Dog bianco, lo speciale n.5, dell’estate del 1991. Avevo nove anni. E irresistibile fu il richiamo del volumetto allegato: la letteratura horror dall’A alla Z.

Tiziano Sclavi s’era apertamente ispirato al capolavoro di Matheson, quell’Io sono leggenda portato già due volte sullo schermo, rispettivamente da Vincent Price e da Charlton Heston. Divenne una specie d’ossessione: volevo il romanzo, ma mancavano più di dieci anni alla ristampa Fanucci e ancora cinque alla riedizione negli Oscar Urania.

Mio padre mi portò – ed era la mia prima volta! – alla Feltrinelli di via Maqueda e lì ordinai il primo libro davvero mio. Sino ad allora gli unici libri che avevo maneggiato erano quelli che mio zio Angelo mi spediva dalla AMZ dove lavorava come correttore di bozze, oltre a quelli che mia madre mi regalava ogni volta che andava a comperare libri di spiritualità dalle Paoline. E dalle Paoline non potevi concentrarti a scegliere per bene: c’erano troppi Gesù e sacre famiglie e bibbie che sembravano inseguirti. E a quei tempi, dopo il Gesù di Nazareth di Zeffirelli avevo un principio di staurofobia che la visione di Marcellino pane e vino all’oratorio aveva rinfocolato a puntino

Ordinai scandendo bene le lettere del cognome e dovevo solo attendere dai tre ai cinque giorni lavorativi.

Aspettavo in estasi che il commesso delegato per le ordinazioni mi chiamasse, mentre ero sempre più meravigliato dalla quantità di libri che vedevo tracimarmi addosso, scoprii che l’unica edizione disponibile era il nuovissimo volume della Mondadori, uscito proprio quell’anno che raggruppava quasi tutti i romanzi dello scrittore di Allendale. Era ben oltre ogni mia rosea speranza
Mio padre che mi ha sempre amato in una maniera viscerale scosse il baffo, a quei tempi ventiseimila lire erano un piccolo capitale per un bambino abituato alle 1800 lire del Topolino settimanale.

Ma mio nonno aveva lasciato in eredità a mia madre un monito lapidario: i soldi spesi per i libri sono sempre soldi benedetti. E così uscii dalla Feltrinelli stringendo fra le mani lo scontrino non fiscale che testimoniava l’acconto lasciato.

(continua…)

  • Vecchie edizioni italiane
  • Nato d’uomo e di donna, il primo racconto di Matheson
  • Al di là dei sogni, romanzo sulla vita, la morte e l’amore

La città e l’identità: “Napoli Ferrovia” di Ermanno Rea

Ermanno Rea

Ermanno Rea

Cosa fa di una città una città? Quando la somma dei comportamenti individuali – casuali discordanti conflittuali – diventa città? È un gioco di tensioni, fratture, balzi in avanti, scollature a cucire addosso ad una città la sua identità? O qualcosa di più materico: l’intrico delle sue strade, la mappa dei suoi monumenti, il suo tessuto urbanistico, l’umidità delle sue mura, le offese del tempo? Oppure la sua voce, il suo dialetto, il respiro concitato delle parole? E ancora: cosa definisce la vocazione di una città, la sua storia o la sua classe dirigente? Una città può incarnarsi in un progetto e quanto la mancanza di progetto può inquinare una città? Quando le compromissioni, le storture, i vizi diventano abito, diventano “passività”, “recita”, “inganno”, fino a farsi sistema, pelle sulla pelle? E infine: cosa definisce l’identità di una città del sud? La sua distanza, il suo ritardo, la sua irriducibilità rispetto ad una del nord? Come tutti i grandi libri, “Napoli ferrovia” di Ermanno Rea semina domande. E inquietudini. L’io narrante – lo stesso Rea – e l’ex naziskin Caracas si muovono tra le pieghe della città: ansioso di mettere alla prova la sua “vocazione” alla fuga, di resistere alla seduzione del ritorno il primo, che ha abbandonato Napoli nel 1957. Di restituire all’interlocutore il proprio vissuto, di scorgere negli avvenimenti della sua vita una trama, il secondo. Avvolto nelle sue reticenze, lo scrittore. A caccia “di verità assolute“, l’ex naziskin.

Rea ha accesso a un mondo, grazie alla presenza di Caracas. Caracas può incontrare un passato che non ha mai conosciuto grazie a Rea. I due camminano. Parlano. Raccontano. Si raccontano. Bevono thè. Non senza attriti. Caracas ha un dono: l’ascolto, la devozione nell’ascoltare. Scrive Rea:

“l’attenzione alle parole altrui, se non è una virtù cardinale, le assomiglia parecchio. Ma la devozione è molto di più, la partecipazione appassionata, l’immedesimazione sono qualità, anzi predisposizioni di cui soltanto pochi sono capaci e che non hanno mai mancato di suscitare in me, le rare volte che ne sono stato gratificato, ammirato stupore.”

I due si concentrano su quel micro-macro cosmo che è la Ferrovia, vera porta di accesso alla città da quando Napoli è stata “amputata” del suo mare. La percorrono, instancabilmente. Se ne allontanano e vi ritornano. La scoprono nel suo volto indaffarato, quello ordinario, fitto di partenze e transiti. E quello nudo, domenicale, quando i napoletani si ritirano da quello spicchio di città e a presidiare la piazza rimangono solo i “nuovi” napoletani, quelli adottivi, quelli che in qualche modo restituiscono a Napoli la sua vocazione: “Questa – scrive Rea – è una città-spugna, capace di apporre il proprio sigillo su ogni importazione, di ridurre alla propria misura chiunque la scelga per casa; questa è una città che inghiotte, metabolizza fingendo di farsi essa stessa straniera via via che integra lo straniero, lo divora. Perciò la mia piazza di oggi non è troppo dissimile da quella di ieri, perfino le voci si rassomigliano, e può accadere anche che il nigeriano gridi al nigeriano – “ma tu che cazzo vvuò?” – con una inflessione di parlata, una voce, come provenisse diretta dalle viscere della città”.Romanzo, cronaca, inchiesta, diario, toponomastica, immaginario: “Napoli ferrovia” è tutto questo, gioco di specchi tra il presente e il passato, tra la Napoli che si offre oggi, sfatta e ancora bellissima, abusata e sfrontata, e quella che emerge dal passato, la Napoli ancora sospesa in una rete di aspettative, prima che si consumasse il tradimento perpetuato ai suoi danni. Perché Napoli – è la tesi ricorrente nei libri dello scrittore napoletano – ha subito un’amputazione, un “sequestro”, nelle parole di Rea. È la Napoli che già erompeva nelle pagine di Mistero Napoletano (1995), altro romanzo-cronaca-diario tutto incentrato su quel sortilegio che ha attanagliato la città nel dopoguerra. Come è potuto accadere che, a un certo punto della sua storia, le menti migliori della città abbiano scelto di uccidersi? Quale disperazione “comune” ha spinto lo scrittore Luigi Incoronato, il matematico Renato Caccioppoli, la giornalista Francesca a uccidersi? Quale assottigliamento della speranza, quale restringersi della capacità-possibilità di incidere sulla realtà della città? Quale impotenza? Cosa ha spinto quelle menti a scegliere la (o lasciarsi scegliere dalla) defezione, la resa? Qui la scrittura di Rea si fa requisitoria, arringa. Non solo Napoli fu spogliata del suo porto e della sua vocazione industriale e mercantile per ospitare il Quartiere generale della Nato, trasformandosi “nel più grande porto militare d’Europa offrendosi come il maggior contributo italiano al sistema difensivo atlantico. Rinunciando così al suo stesso sviluppo. Anzi, a ogni futuro possibile. In compenso, tutto il Mediterraneo ai suoi piedi: ma non come mare di pace, come mare di guerra”. Ma al ripiegamento della città su se stessa, contribuì in maniera determinante – è la tesi dello scrittore – anche il partito comunista che raccolse quelle inquietudini ma allo stesso tempo mise in piedi una spietata macchina inquisitoriale che finì per spegnere, prosciugare aneliti e stendere – sugli spiriti più inquieti della città – una cappa di mortifero silenzio. Una “dismissione”, per citare un altro libro di Rea (La dismissione, 2002), che inghiottì non solo Bagnoli e la sua acciaieria (l’Ilva di Bagnoli) ma l’intero destino della città. Una “dismissione” che è metafora neanche troppo velata dello “smontaggio” che fu inflitto a Napoli, tanto più doloroso perché ebbe come apogeo proprio quell’acciaieria che era assurta a simbolo di un’altra città. “Noi amavamo Bagnoli – dice uno dei personaggi di La dismissione -. Perché rappresentava mille cose insieme ma, prima di tutto, perché incarnava ai nostri occhi una salutare contro-copertina della città. Una contro-copertina che trasformava in alacrità l’indolenza, in precisione l’approssimazione, in razionalità l’irragionevolezza, in ordine il caos, in rigore la rilassatezza. L’amavamo perché introduceva in una città inquinata – la Napoli della guerra fredda, dell’abusivismo selvaggio, del contrabbando – valori inusuali: la solidarietà; l’orgoglio di chi si guadagna la vita esponendo ogni giorno il proprio torace alle temperature dell’altoforno; l’etica del lavoro; il senso della legalità…”.C’è una virtù (o una maledizione?), un’attitudine, che accomuna, che ritorna, come una sorta di sigillo, nei personaggi (ma è meglio dire nelle persone) che Rea interroga, ascolta, trascrive nei suoi libri. Quella virtù ha un nome: ostinazione. Una sorta di irriducibile resistenza, di fiera passività, di attaccamento e fedeltà morali, pagate a  caro prezzo. Qualcosa che ha due facce, se è vero che essa – quell’ostinazione, quella dirittura – può farsi estrema, avere estreme conseguenze. Farsi scelta radicale: quella della sparizione, come nel caso dell’economista Federico Caffè (e raccontata da Rea in “L’ultima lezione. La solitudine di Federico Caffè scomparso e mai più ritrovato”). L’ostinazione può essre insomma una virtù tragica: “Con la volontà si tende in generale a costruire; essa è progetto, e in quanto tale conosce e pratica le arti della duttilità. La volontà è una virtù rampante. L’ostinazione invece è difesa a oltranza di qualcosa. Generalmente di principi: non conosce perciò compromessi. Per l’ostinato la vita è una trincea da non abbandonare a nessun costo; è rifiuto. Anzi, è il rifiuto elevato a paradigma esistenziale, a ricerca di una possibile bellezza del mondo al di là delle degradate forme in cui tende a cristallizzarlo il potere. Qualunque forma di potere”.

“Ormai tutta la vecchia ossatura industriale napoletana era in via di smantellamento: avevano soltanto l’imbarazzo della scelta. Nella sola zona flegrea l’elenco delle fabbriche-non-più-fabbriche faceva spavento: Cementir, Montedison, Olivetti, Pirelli-cavi, Cantieri Navali di Baia, Novopan, Ferriere di Agnano. Senza contare le decine di ditte private che svolgevano lavori di manutenzione speciale degli impianti all’interno dell’Ilva. Poi c’erano le fabbriche della zona orientale: la Corradini, le Cotoniere meridionali, la Manifattura tabacchi, il polo petrolchimico…” (La dismissione, p.158).