Urbs

Nunc scribo postquam oculos meos  extra fenestram meam conieci. Quartum haec de urbe verba scribere conor et quotiescumque incepi antea oculos meos extra fenestram conieci. Cur hoc facio, e me quaero?
Ego scribo e interiore urbis parte, cubiculum meum domi cuiusdam  in interiore urbe est. Contra mihi inspiciendum extra fenestram est, ut si extra urbs essem et ego animi inflammationem illuc extra quaererem, ut si Roma extra esset et ego alio loco essem.
Aedem sacram Sancto Petro dicatam e finestra mea prospicio, sed antequam oculi mei usque ad tholum perveniant, duos homines, quorum solas formas perspicere possum, ad domus cuiusdam tectum struendum intendentes cerno. Illi in urbe sunt. Ego ubi sum?
Me cogitante oculi mei vagant in scriptorio meo ubi liber quidam stat. Qui The Secret of New York Revealed inscriptus est. Alia dicit, non quae vos pro certo ponitis. Non de secretissimo Eboraco Novo peregrinatoribus incognito, de tabernis et de locis ubi vita vera est hoc liber dicit. Sed de Eboraci Novi anima dicit hoc liber cuius ille Thomas  Howard qui illius clarissimi C. S. Lewis scripta curavit auctor est. Tunc animo alias urbes quas novi quod in quibusque totum mensem vixi fingo: Sanctum Franciscum, Neapolim, Genuam, Patavium, Augustam Taurinorum, Londinium, Lutetiam Parisiorum, Messanam. Omnes urbes meae. Quarum cuique anima est, quam descriptiones describere non possunt, quam nullum itinerarium adnotatum explanare potest, ad quam intelligendam contra maxima admixtio et vera corporis contagio necessariae sunt. Cuique urbi natura propria est, quae solum in necessitudinibus nota est. Igitur contra urbs locus qui coniunctiones patet, societates conficit est.
Quomodo hoc facit? In primis cum posita et defixa in radicibus meis sit, si illic, in quadam urbe defixae sunt. Si ego in quadam urbe natus sum, illa urbs hometown mea, id est mea natalis urbs fit.
Urbs natalis mea naturam meam format, me notat; ingenium et mores meos fingit, quid de vita sentiam constituit. Adducere me ad fugiendum vel ad manendum atque adeo potest
Si in maxima urbe nascor, fugere in parvum pagum forsitan cupiam, si contra in vico, in tumultuosam urbem fugere cupiam.
In agresti vico nasci, necessitudinem cum humo, cognationes et usus certos et angustos habere, necesse esse scire ad discendum et ad comparandum labore et industria victum longe ire postulat.
Ruri nasci in animo semper alia loca habere, quod pondus (mihi ad victum comparandum proficiscendum est!) , sed etiam liberatio (proficiscor!) est postulat.
In urbe nasci contra necessitudinem cum itineribus, viis, officinis, tabernis, agribus consaeptis habere et scire te vitam tuam illic, in hoc locorum quibus vis non pulchritudine sed frequentia est reticolo,  agere posse postulat.
Cum urbem primum lustramus ab necessitatibus quae e frequentiis memoriisque nascunt alieni sumus. Tunc vel oritur aliquid quo nobis domi esse videatur (quamvis causam nesciamus) vel extranearum rerum fascinum animadvertimus: res nos quod ipsae pulchrae, non quod frequentes sunt percutiunt. Dum hoc sensus permanet, illa urbs numquam nostra erit.
Sed aliquid subito oriri potest et ergo illa urbs , si nostra natalis urbs non est, urbem electam fieri potest, ubi oculi nostri locos domesticos et ad subigendum faciles videre mirifice possunt. Intellegis non rerum alienarum pulchritudinem loci ignoti venustatem, sed maximum cum vita ipsa, oribus, itineribus, caelo ipso consensum te percuotere. Animadvertis illam urbem sponte sua tecum congruere. Tunc urbs locum ipsum necessitudinem esse, non solum contextum in quo ipsa necessitudo se esplicare (studio et humanitate, negotiis, ludis, etc.) potest ostendit.
Mihi quaestio prima occurrit: ubi sum si mihi ad urbem perspiciendam extra fenestram inspiciendum est? Ita est! Extra mihi inspiciendum est, quod mihi Roma contra intuenda est, facies mea efferenda est ad eam intuendam etiam si in intus ea sum. Ad eam intuendam mihi exire nocesse est, etiam si intus sum. Sum in media necessitudine patente quae me in orbem terrarum immittit.


L’arte della scrittura

A cura di Marianna Barilari

Il Wen Fu di Lu Ji è la prima grande dissertazione in cinese antico sull’arte della scrittura, composta in quella che, potrebbe essere meglio definita come poesia in prosa. Se l’inventore della forma fu non è certo Lu Ji, fu comunque lui ad utilizzarla in maniera assolutamente innovativa. In precedenza il fu era stato una forma popolare impiegata quasi esclusivamente nei poemi discorsivi a carattere storico o di elogio nei confronti di capi politici e militari.

Il primo testo cinese dedicato all’uso della lingua è il Da Xue (o Grande Apprendimento) di Kong Zi (Confucio). Il maestro Kong Zi era convinto che tutta la saggezza risiedesse nell’imparare a chiamare le cose con il loro giusto nome e che solo attraverso la “rettificazione dei nomi” fosse possibile progredire verso un’esistenza illuminata. Intuizione doppiamente rimarchevole, se pensiamo che Kong Zi viveva in una nazione più avanzata del pianeta, con una lingua ricca di locuzioni emblematiche, di eufemismi, doppi sensi e ambiguità stratificate carche di polivalenze. [Continua »]


Ulisse legge

Oggi in quel di Uboldo si è tenuto il secondo appuntamento del Laboratorio di Lettura. Ecco il report!

PARTECIPANTI: 6
TESTI LETTI:
“Faticando insieme anche piacevolmente” (autori vari)
“Sto rifacendo la punta al pensiero” (V. Magrelli, da “Ora serrata retinae”)
“Il cacciatore di aquiloni” (K. Hosseini)
“Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” (G. Leopardi)
“L’abbigliamento di un fuochista” (F. De Gregori)

La serata si apre con Lino che propone la lettura di alcuni “divertissement” contenuti nel libretto “Faticando insieme anche piacevolmente”. Si tratta di alcune topiche raccolte sui luoghi di lavoro.
La risata, in questo caso, nasce spontanea. Gli strafalcioni diventano letteratura comica perché calati in un contesto particolare che esalta, carica, trasforma l’errore grammaticale o la buttata dialettale.
La maggior parte dei presenti ha fatto esperienza di questa “letteratura minima”, nella quale la piccola frase, detta così senza pensare, è in grado invece di raccontare una storia, una vita. E quanto siano comuni queste storie e queste vite lo testimonia il fatto di trovarsi lì a raccontare ognuno i propri aneddoti, tutti piacevolmente legati dal tema del “collega”.

Luca ci regala una poesia di Valerio Magrelli, autore sconosciuto ai presenti. La poesia “Sto rifacendo la punta al pensiero” è di una forza incredibile. Tutta giocata sulla metafora della miopia, che sfocando i contorni degli oggetti costringe il pensiero a soffermarsi maggiormente sopra di essi per cogliere gli enigmi che celano.

“La miopia si fa poesia,
dovendosi avvicinare al mondo
per separarlo dalla luce.”

La poesia diventa uno sfocare l’oggetto del pensiero per farne emergere gli enigmi che cela; quindi un avvicinarsi ad esso per rimetterlo a fuoco. È la “prodigiosa difficoltà della visione”, ottenuta grazie ad una riflessione a cui occorre “fare la punta” e condotta da “occhi che si consumano come matite”.

Pinuccio ci trascina in Afghanistan, attraverso alcune pagine del libro “Il cacciatore di aquiloni”.
Pinuccio concentra la nostra attenzione sui discorsi che occorrono tra il protagonista del racconto (appartenente alla classe dominante pashtun) e il proprio servo Hassan (un “hazara”, ovvero membro della classe di servitori).
Poche frasi riescono a restituire due cose: anzitutto la robustezza e la dignità del rapporto servo/padrone, temprata dalla cultura afghana e così lontana dal modus vivendi occidentale; poi, il vero rapporto di valori tra servo e padrone, basato sulla personalità dei due. Hassan è sì servitore, sì illetterato, ma è sagace, arguto, puro. Il padrone, invece, non si trova a suo agio in quella veste e quasi rifiuta l’eredità della sua casta.
Due pagine sono bastate per piegare lo spazio ed il tempo e trascinarci in un luogo che sembra millenni lontano dall’Italia contemporanea.

Dante scomoda un gigante della letteratura italiana: Giacomo Leopardi.
Il nostro omonimo del “Sommo Poeta” esordisce così: “Questa è una poesia da leggere insieme.”
Quindi parte a recitare, con quel suo accento toscano che tanto restituisce a questa canzone. Terminata la lettura, Dante ci invita a considerare le pause e la punteggiatura usata dal poeta.
“Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai
silenziosa luna?”

È già il preludio di un faccia a faccia, quasi piccato, tra il pastore e l’astro notturno.
E così via, rileggendo e fermandosi ad ogni interruzione. La poesia ridiventa il monologo che è stato concepito. E lo sfondo pessimista esalta ancora di più questo confronto monodirezionale.
“E quando miro in cielo arder le stelle;
dico fra me pensando:
a che tante facelle?
Che fa l’aria infinita, e quel profondo
infinito seren? che vuol dir questa
solitudine immensa? ed io che sono?”

Sembra di vedere concretizzarsi quel “dolce naufragare” che appunto ne “L’Infinito” il poeta sublima.

Infine, io mi trovo a proporre un brano di un “poeta contemporaneo”, Francesco De Gregori.
“L’abbigliamento di un fuochista” mi commuove alle lacrime. La vicenda si svolge alla partenza del transatlantico Titanic. In pochissime strofe, il cantante riesce a trasmettere immagini, a ricostruire luoghi, storia e psicologia dei due protagonisti: una madre che, da terra, vede il figlio partire emigrante.
Ed eccolo lì il ragazzino, stretto al bavero della sua giacchetta, con i pantaloni consumati dal lavoro,

Eccolo lì, sul ponte della nave, affacciarsi dal parapetto e salutare la madre con il berretto.
La madre è preoccupata; come non potrebbe? Gli ha comprato delle scarpe nuove e gli ha regalato qualche spicciolo, raccomandandosi di tenerselo ben stretto nella cintura. Di questi tempi la gente non ha più paura nemmeno di commettere il sacrilegio del furto.

Ma dove vuoi andare, figlio mio? Qui hai una casa, una terra, una famiglia. Sei qualcuno. Nella grande America, invece, sarai una faccia tra le facce. Senza progetti, mendicante d’affetto. Ma tu ora te ne sei andato. È ora di pensare agli altri ragazzi…

Tutte queste considerazioni sono però bilanciate dal pensiero del figlio. Mamma, tu ti crucci per me, per la mia incolumità, per il mio benessere. Ma la vita è dura ovunque, al paese, su questa nave, in America. Ti preoccupi per i quattro soldi che mi hai dato, quando la miseria si sta perdendo la mia intera giovinezza. Sarò straniero in America quanto lo sono qui: senza futuro, senza progetti, senza cultura. Affido il mio destino a questa nave.
“L’italiano non so cosa sia; eppure se attraverso il mondo non conosco la geografia.”

Che dire di più? Prossimo incontro, giovedì 20 Dicembre.
Portate il panettone!


Città: la metropoli è una bestia?

Reduce da un giro telematico nel mondo del fumetto “underground” italiano (anche se la definizione è passata di moda), sono inzuppato di bile. Vulcani in eruzione, bidoni incendiari, palazzi di cenere, recinti per porci, corpi crivellati, teste cubiche, folle ottuse: le migliori energie creative dei giovani disegnatori italiani sono concentrate a spremere acido dalla città in cui vivono. Anche se gli esiti sono spesso di scarsa originalità, l’effetto complessivo è quello di un potente urlo di rabbia, che non può rimanere inascoltato.
Volendo estremizzare, l’idea di fondo è questa: le metropoli sono il luogo ed il simbolo di una grave crisi dei nostri tempi; il percorso del progresso ha subito una inversione a U che vede apparire nelle città gli effetti più evidenti; l’umanità è incamminata verso la propria autodistruzione. [Continua »]


La cittadella kafkiana di Mervyn Peake

«Gormenghast, ovvero l’agglomerato centrale della costruzione originaria, avrebbe esibito, preso in sé, una certa qual massiccia corposità architettonica, se fosse stato possibile ignorare il nugolio di abitazioni miserande che pullulavano lungo il circuito esterno delle mura inerpicandosi su per il pendio, semiaddossate le une alle altre, fino alle bicocche più interne che, trattenute dal terrapieno del castello, si puntellavano alle grandi mura aderendovi come patelle a uno scoglio. Questa fredda intimità con la mole incombente della fortezza era concessa alle abitazioni da leggi antichissime. Sui tetti irregolari cadeva, col variare delle stagioni, l’ombra dei contrafforti smangiati dal tempo, delle torrette smozzicate o eccelse e, enorme fra tutte, l’ombra del Torrione delle Selci che, pezzato qua e là di edera nera, sorgeva dai pugni di pietrame nocchiuto come un dito mutilato puntando come una bestemmia verso il cielo».

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Gas-o-line n° 73 – Ottobre 2007

Gas-o-lineCari Bombers, è stato pubblicato sul sito il nuovo numero della e-zine di BombaCarta: il numero 73 di Gas-o-line.

Lo trovate, come al solito insieme a tutti gli arretrati di Gas-o-line, nella pagina dedicata a Gas-o-line all’interno del sito: https://bombacarta.com/gas-o-line/.

Il numero di questo mese contiene le seguenti rubriche:

  1. L’Editoriale, di Antonio Spadaro
  2. Poesie, di Anna Maria Bonfiglio
  3. i Racconti del mese, di Toni La Malfa & Manuela Perrone
  4. Critica letteraria, a cura di Rosa Elisa Giangoia
  5. Novità dal mondo di BombaCarta, di Livia Frigiotti

Un saluto a tutti e buona lettura!