Immaginare l’altrove

Signori imperadori, re e duci e tutte altre genti che volete sapere le diverse generazioni delle genti e le diversità delle regioni del mondo, leggete questo libro dove le troverrete tutte le grandissime maraviglie e gran diversità delle genti d’Erminia, di Persia e di Tarteria, d’India e di molte altre province.

Questo è l’incipit di quello che forse è il più famoso esempio di letteratura di viaggio scritto in Italia, ossia Il Milione di Marco Polo. Visitare l’Oriente, alla fine del Tredicesimo secolo, era un’esperienza unica possibile per pochissime persone e il viaggiatore si rivolgeva ad un pubblico che mai avrebbe potuto vedere la Cina o l’India. Marco Polo deve perciò stimolare la fantasia dei suoi lettori, permettendo loro di immaginare l’altrove. Per introdurci subito nel mondo che intende narrare usa due parole chiave: “diversità” e “maraviglie”. L’altrove, infatti, è per definizione ciò che non è “qui”, che invece corrisponde al luogo, di dimensione spaziale variabile, dove tutto, più o meno, somiglia a ciò che conosciamo. Perciò per farsi un’idea dell’altrove, sembra sottintendere Marco Polo, si può partire da ciò che è a noi vicino e immaginarlo diverso, capovolto. Ovviamente questa operazione porta di rado all’intuizione della realtà di un posto lontano, creando più facilmente nella nostra mente panorami idealizzati oppure grotteschi e assurdi.

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[Report] Officina di dicembre 2021

Valerio

Quando lo sventurato Piermaria Fabris (interpretato da Fabio Traversa) giunge alla riunione di Compagni di scuola forse non immagina di ritrovarsi al centro delle reiterate canzonature da parte del gruppo. Con lui il tempo non è stato generoso, mutandolo nell’aspetto tanto da renderlo irriconoscibile. E, tuttavia, al suo cambiamento fisico corrisponde l’immutabilità di questo gruppo di bulli mai veramente maturati, nonostante siano trascorsi quindici anni dal diploma. Iniziamo a focalizzare alcuni vocaboli chiave legati all’orientarsi nel tempo e nel cambiamento: primo tra tutti il riconoscimento.

Come le riunioni tra ex compagni di scuola diventano occasione di confronto e bilancio, così i compleanni possono tramutarsi rapidamente da momento festoso a resa dei conti con se stessi e il tempo che resta. Soprattutto con certi invitati…

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Tempi che cambiano

Tempora mutantur, nos et mutamur in illis.

“I tempi cambiano e noi cambiamo con essi”. Il cambiamento è una condizione costante e inesorabile dell’esistenza.

Nonostante sia pressoché impossibile controbattere, abbiamo la sensazione che non sia tutto. Questo perché essere coscienti che il cambiamento esiste, non significa accettarlo, accettarne le conseguenze. Anzi, piuttosto il contrario.

Cambiare, a differenza dell’evolversi, non ci assicura di andare incontro ad un miglioramento, ma ci mette di fronte all’ignoto. Sarà un cambiamento in positivo o in negativo? Questa incertezza ci confonde, ci spaventa e, in molti casi, ci paralizza. Meglio restare immobili, piuttosto che rischiare un peggioramento. Neanche così, però, possiamo sfuggire alla condizione inesorabile di cui sopra. Immaginiamo di passare la vita a cercare di evitare ogni scelta decisiva, ogni imprevisto o variazione nella routine che potrebbe farci perdere l’orientamento, esporci all’inaspettato. Immaginiamo di poter evitare che la nostra vita cambi. Ogni giorno uguale all’altro. Prima di tutto: stiamo vivendo? E poi, anche se riuscissimo a mantenere una staticità degli eventi, potremmo evitare di cambiare?

L’esempio più evidente di una trasformazione cui proprio non possiamo resistere, è quello che coinvolge il nostro corpo e il passare del tempo. La crescita e l’invecchiamento sono trasformazioni inevitabili a livello fisico. Esse costituiscono un cambiamento che può essere misurato in giorni, mesi, anni.

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[Report] Officina di novembre 2021

Margherita

In un intervento introduttivo, si ripercorrono le questioni affrontate nell’editoriale, a partire dalla sensazione di scollamento rispetto al mondo concentrata nei versi di Emily Dickinson: “Questa è la mia lettera al mondo/che non scrisse mai a me.” La poetessa descrive la sua difficoltà di comunicare con il mondo attraverso l’immagine della lettera non corrisposta, indicando la scrittura come metodo di comprensione della realtà.

Non solo la scrittura, ma ogni forma di linguaggio costituisce uno strumento utile e necessario per muoversi nel mondo. Nel momento in cui ci troviamo di fronte a qualcosa di sconosciuto, infatti, sentiamo il bisogno di dargli un nome, di renderlo individuabile e comunicabile, per poterlo comprendere. 

Questo “dare i nomi” vale per le cose, per le persone, per i luoghi. Su questi si concentra parte dell’intervento, con un brano tratto da Names on the Land di George Stewart, in cui si racconta la scelta del nome per la futura Virginia. Stewart racconta che il nome indiano della regione, riportato alla regina Elisabetta I dagli esploratori del nuovo mondo, era Wingandacoa. Pare che la pronuncia di questa parola abbia ricordato alla regina il suo soprannome – “regina vergine” – e che le sia sembrato particolarmente adatto ad una terra inesplorata e sconosciuta. Elisabetta I scelse poi la forma latina della parola, nominando la regione Virginia. In History of the world, però, uno dei più noti esploratori inglesi, Walter Raleigh, scrive: 

Quando la mia gente chiese come si chiamasse la regione, uno dei selvaggi rispose Wingan-da-coa. Significa all’incirca “indossate bei vestiti”.

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Lui

Sì è vero! – Sono nervosa, spaventosamente nervosa – lo sono sempre stata – ma perché volete pretendere che io sia pazza? Tutto quello che ho visto, provato, ricordato, è successo veramente, non è che me lo sia inventato di sana pianta. Io non sono neanche una persona violenta, voi non lo potete sapere perché non mi conoscete, ma provate a chiamare – non so – Anna Meis, è una vecchia amica, lei ve lo può dire, che non mi arrabbio mai. Ancora meglio, la mia vicina di casa, la signora Gertrude, sa tutto quello che ho passato, sentite lei. Tutti mi daranno ragione, capiranno. Davvero, so quello che sembra, ma voi non conoscete la storia dall’inizio, per questo gli date ragione, ne fate addirittura la vittima.  Si, perché non è che sia iniziata con mio marito – il mio ex marito, grazie a Dio – e non è che io sia nata nervosa, certo. Però cercate di capire, una ci diventa, quando viene trattata come hanno trattato me, sin da ragazzina.

Non fa piacere sentirsi ridere in faccia ed essere chiamata “cicciona” o “topo” – per i denti – o “secchiona” o “deficiente” – perché a ricreazione stai al banco e leggi, perché sei timida e non sai come parlare con gli altri. Non è carino e non è che sia la sola che vi può raccontare di queste cose, però è per farvi capire. Cominci a pensare che sia vero quello che ti dicono, ti ci senti proprio e lo sai che a tutti fanno schifo i topi – compresa a te – e che a nessuno piacciono le ciccione, che quando sei così non la troverai mai una persona che ti possa amare.  Ci speri ancora, eh, però diciamo che l’asticella si abbassa, ti accontenteresti di qualunque cosa, di chiunque. Non fa piacere essere soli così, ti vengono brutti pensieri in mente perché non hai altro da fare che pensare male. [Continua »]


Mondi (in)comprensibili

Questa è la mia lettera al Mondo / Che non scrisse mai a Me.

È con l’immagine di una lettera senza risposta, che Emily Dickinson sceglie di rappresentare la distanza che sente tre sé e la realtà. Una poetessa che cerca di comprendere il mondo attraverso le parole. Un mondo che si nega, che chiude ad ogni possibilità di comunicazione. In questi due versi Dickinson condensa tutta la sua solitudine, il suo sentirsi ignorata in un dialogo fondamentale come quello con il reale. Forse, semplicemente, Emily e il Mondo parlano “lingue” diverse.

Il modo in cui comunichiamo è da sempre la chiave di volta del nostro rapporto con ciò che ci circonda. Il linguaggio è uno strumento, più che utile, necessario per comprendere la realtà: nel trovarci di fronte qualcosa di nuovo, iniziamo a conoscerlo quando gli diamo un nome, lo rendiamo identificabile e quindi comunicabile. Non è un caso che in molti racconti della Creazione sia l’uomo a dare nome al creato – come nel caso di Adamo – o perfino che la realtà prenda forma nel momento in cui l’essere umano la nomina.

Un esempio più immediato di questo bisogno di “dare un nome” è quello dei toponimi. Sarebbe quasi impossibile definire il nostro muoverci nel mondo, se non avessimo un nome per ogni luogo da cui proveniamo, che attraversiamo o verso cui siamo diretti. Ma in base a cosa scegliamo questi nomi?

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[Report] Officina di ottobre 2021

Valerio

L’icona del “voi siete qui” tenta di rispondere alla domanda “dove siamo?” e ha la funzione di individuare un soggetto in una mappa. Si tratta, dunque, di una rappresentazione del rapporto tra soggetto e spazio.

A partire da questo presupposto, iniziamo con l’affrontare il tema dal versante del soggetto rappresentato. Durante un’intervista al David Letterman Show, un disorientato Joaquin Phoenix appare assolutamente remissivo e impenetrabile. Joaquin ha deciso di abbandonare la carriera d’attore e non sembra molto presente a se stesso, tanto che alla fine Letterman lo saluta dicendo “Grazie di NON essere stato qui stasera”.

https://youtu.be/rmOVhA12C54
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